Rifacendosi alla storia giuridica del Novecento, l'a. ritiene che tra contratto collettivo e legge si sia ormai realizzata un'unione di fatto che, in perfetta sintonia con la genetica bipolarità del sindacato, permette a quest'ultimo di giocare a scacchi con due Regine. Esso infatti, pur situando in cima ai suoi pensieri l'omologazione alla legge del contratto collettivo, non intende rinunciare all'originarietà del potere normativo esercitato in virtù di una auto-legittimazione sociale più presunta che verificata. Viceversa, se la produzione su base consensuale e a larga scala delle regole del lavoro costituisce una risorsa vitale per il legislatore, la sua prestatualità non comporta tuttavia l'esonero da modelli regolativi coerenti con la trasformazione della rappresentanza sindacale riconducibile allo schema del mandato associativo in una sottospecie della rappresentanza politico-istituzionale di natura pubblicistica. Peraltro, l'a. è dell'avviso che al contratto collettivo non può più corrispondere una, e una sola, disciplina ossia quella edificata nel Novecento per adempiere una funzione social-tipica aderente alle esigenze di uniformità garantita indotte dal sistema economico-produttivo dell'epoca. Oggi, il contratto collettivo appartiene piuttosto alla razza dei mutanti. Pertanto, è necessario ipotizzare un'articolata tipologia di regimi giuridici, tra i quali quello novecentesco appare in declino.