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La peer education è una strategia di intervento usata in tutto il mondo nella prevenzione dell’AIDS. Il presente studio presenta la valutazione di efficacia di un progetto di peer education per la prevenzione dell’AIDS/HIV nel Nord Italia (Verbania). Il progetto si proponeva di incrementare l’attribuzione causale interna sulla salute, emozioni negative intense nei confronti dell’HIV/AIDS, e di modificare le rappresentazioni sociali dell’HIV/AIDS. La valutazione di efficacia è stata condotta attraverso un disegno di ricerca pre/post quasi sperimentale. Un questionario autocompilato è stato somministrato a 212 studenti (112 studenti che hanno partecipato al programma e 100 studenti che hanno frequentato scuole nei quali non è stato attuato il progetto). Il questionario è stato compilato due volte, una prima dell’intervento ed una dopo la sua conclusione. I risultati mostrano che, dopo l’intervento, il gruppo sperimentale riporta una attribuzione causale interna significativamente più alta. Inoltre, dopo l’intervento, i ragazzi del gruppo sperimentale riportano un più alto livello di emozioni negative nei confronti dell’HIV/AIDS. Risultati contradditori emergono nei confronti delle ragazze che, dopo l’intervento, riportano un incremento delle rappresentazioni stereotipiche dell’HIV/AIDS. Al termine sono discusse le implicazioni dei risultati nella prevenzione dell’HIV/AIDS.
L’articolo esamina lo sviluppo di forme di pensiero materialista specificamente femministe, a partire dalla filosofia dualistica classica di Beauvoir fino alle scuole più radicali del materialismo corporeo poststrutturalista. L’A. difende la tesi che una nuova forma di "materia- realismo" che si è sviluppata in questi ultimi anni, in combinazione con nuove frontiere della ricerca scientifica in bio-genetica, scienze neuronali e dell’evoluzione e l’ecologia. Questo neo materialismo femminista si orienta verso una politica vitalista e un’ontologia politica monista.
L’articolo esplora i limiti dell’ empowerment nei contesti caratterizzati da estreme, pericolose e persistenti diseguaglianze di potere. Il contesto indagato è quello di cui hanno fatto esperienza negli ultimi 30 anni i membri e i sostenitori di un’organizzazione femminile clandestina afghana dedita a scopi umanitari e politici. Benché l’ empowerment sia considerato un principio guida per la psicologia di comunità, questo lavoro sostiene che in setting dove è quasi impossibile per una sub-comunità ottenere risorse, accesso, padronanza e controllo su se stessa e gli altri, l’ empowerment può essere un obiettivo irrealistico e ingannevole. In alternativa, le autrici propongono il concetto di resilienza, operazionalizzato come un processo radicato nella cultura e multilivello che porta a processi e risultati di qualità superiore in situazioni di perdurante difficoltà. La resilienza multilivello si occupa dei successi raggiunti malgrado il verificarsi di estreme diseguaglianze. Il concetto di resilienza, centrato sulla resistenza, la perseveranza, gli obiettivi e gli approcci locali, e i contesti sovra e sottoordinati di rischi e fattori protettivi, è in sintonia con i valori e i principi della psicologia di comunità.
Le autrici considerano che gli studi di genere si inseriscono in una prospettiva epistemologica volta a studiare l’articolazione tra processi psicologici e processi sociali. Anche gli stereotipi di genere esprimono contenuti che hanno una origine sociale. L’articolo intende rispondere a due questioni: a) i valori di sessismo, ostile e benevolente, sono diversi per uomini e donne?; b) gli stereotipi sono in relazione con politiche di gender equality? Vengono presentati alcuni dati di una ricerca condotta in due regioni italiane (Piemonte e Sicilia) su un campione di studenti universitari confermando come sia il sessismo ostile sia quello benevolente si differenzino per genere e per contesto socio-culturale.
Lo studio mira ad acquisire elementi di conoscenza empirici utili a comprendere se i contesti della deliberazione pubblica rappresentano uno spazio di voce non penalizzante per le donne, oppure se, al contrario, riproducono meccanismi di esclusione e discriminazione, come sostenuto da alcune studiose femministe (Young, 1996; Benhabib, 1996). Attraverso l’analisi di dodici interviste a partecipanti (metà uomini e metà donne) a tre esperienze di deliberazione, l’autrice giunge alla conclusione che i modelli di partecipazione sono qualitativamente diversi per uomini e donne, e che i setting deliberativi, pur configurandosi come contesti tendenzialmente favorevoli alla partecipazione femminile, non possono aprioristicamente essere considerati immuni ai processi di discriminazione. In prospettiva di un approfondimento, l’autrice sottolinea come questo aspetto possa essere meglio indagato attraverso l’analisi dell’interazione tra i soggetti deliberanti.
Con questo lavoro si è inteso verificare la persistenza di modelli relazionali improntati a una divisione tradizionale dei ruoli di genere nell’ambito del lavoro riproduttivo. Un questionario volto a rilevare la suddivisione dei lavori domestici sia nella descrizione dei vissuti quotidiani sia in quella relativa ad una convivenza ideale è stato sottoposto a 947 persone (53,5% donne) appartenenti a diverse classi di età. I risultati rivelano, sia sul piano concreto sia su quello ideale, una sostanziale tipizzazione dei compiti domestici. La stabilità del dato attraverso i sottocampioni, indica una consistente condivisione delle aspettative di ruolo, concepite come profondamente asimmetriche, fra tutti i partecipanti: uomini e donne, giovani e adulti.
A partire dagli esiti di una ricerca sulle rappresentazioni sociali della maternità (Camussi, 2009), il contributo indaga "la solitudine delle madri" attraverso l’analisi delle produzioni discorsive di un gruppo di donne (lavoratrici, cultura medio-alta, residenti a Milano) con un’esperienza di maternità "normale". I risultati mostrano che la solitudine è una scoperta tanto sgradevole quanto inaspettata e deriva: 1) dall’assenza dei partner, padri "nuovi" e coinvolti, spesso non altrettanto adeguati a cogliere la complessità del ruolo materno; 2) dalla mancanza di reti famigliari e sociali che forniscano alle donne condivisione e supporto, riducendo l’investimento e le attese sul partner.
Nella ricerca sul genere, la proposta di una prospettiva teorica innovativa - centrata sulla critica al riduzionismo biologista e all’essenzialismo - si è accompagnata a una riflessione critica sull’approccio cognitivo mainstream e sulla sua caratterizzazione di genere, il malestream. Tale riflessione viene discussa nell’articolo in relazione a temi epistemologici - il realismo e la svolta linguistica - e metodologici, relativi al confronto tra metodi qualitativi e quantitativi. Dall’analisi emerge come alcune delle questioni poste, in particolare dalla psicologia femminista, quali la soggettività del ricercatore, il ruolo del contesto, il tema del potere nelle relazioni ricercatori-ricercati, costituiscano dimensioni problematiche tuttora rilevanti per chi fa ricerca psicosociale.