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I contributi in lingua italiana a quella che la storiografia anglosassone chiama "Nuclear-History" hanno acquisito negli ultimi anni consistenza e valore. In Italia il dibattito-attorno allo sfruttamento dell’energia nucleare è stato segnato da due consultazioni-popolari referendarie; combinazione storica ha voluto che in entrambe le occasioni si-sia verificato un incidente nucleare di portata internazionale, che ha fatalmente influenzato-le campagne dei referendum. In concomitanza con l’anniversario del disastro di-Chernobyl, la pubblicazione di nuovi studi riguardanti la storia del disastro o dello-sfruttamento dell’energia nucleare a fini civili ha arricchito tale panorama bibliografico.-Questo saggio si propone di confrontare le nuove interpretazioni con i principali riferimenti-internazionali di "Nuclear History".
Partendo dal recente libro di Daniele Menozzi su Chiesa e diritti umani, l’articolo-si occupa di alcuni temi meritevoli di essere approfonditi, in particolare degli gli sviluppi-e delle trasformazioni della teoria dei diritti e dei corrispondenti mutamenti nella-dottrina e nella cultura cattolica nei secoli XIX e XX.-
In questo saggio l’autore intende principalmente mostrare l’importanza di alcuni-fondi archivistici - e in particolare delle carte dell’Allied Control Commission - per la-ricostruzione storica della presenza malavitosa nei quartieri operai di Milano nel secondo-dopoguerra. A partire da ciò, l’autore mette in luce come si affermi, in questi-rioni, una particolare relazione triangolare tra piccoli criminali, forze di polizia e popolazione:-una separazione, comunque non scontata e fluida, fra gruppi che adottavano-principi di legalità e gruppi che al contrario ritenevano necessario delinquere. In questo-senso, la tradizionale funzione cosiddetta di "chirurgia sociale", praticata per separare-le classi produttive dai marginali e dai contestatori, sembrava essere all’opera anche in-quella fase storica, ma le classi "pericolose", a quel punto, erano da intendere come un-pezzo ampio di società che tagliava trasversalmente i ceti, i gruppi sociali e anche le-istituzioni.-
Il saggio ha per oggetto un giornalista cattolico e ex-popolare Giulio de’ Rossi dell’Arno-(1884-?) che fino ad oggi non è stato oggetto di studi approfonditi da parte della-storiografia. Dal 1929 fino al 1943 egli organizzò il concorso che aveva visto i parroci-competere fra loro per la produzione del grano. Il concorso aveva la funzione di-mobilitare annualmente i parroci a favore della causa fascista. Attraverso i suoi due periodici,-«Italia e Fede» e «Rassegna Nazionale», de’ Rossi portò avanti un’opera di diffusione-della propaganda fascista tra i cattolici.-L’articolo intende dimostrare che de’ Rossi svolse un’azione di propaganda razziale-allo scopo di conciliare cattolicesimo, fascismo e razzismo, considerando la sua capacità-di mobilitare gli ecclesiastici attraverso la battaglia del grano. Tramite quest’analisi emergono le particolarità dell’ideologia e dell’attività di de’ Rossi rispetto a-quelle dei propagandisti che presentano affinità con lui.-
Questo studio intende illustrare la ricezione post-medievale dell’eresia catara e la-nascita e lo sviluppo, dalla fine del XIX secolo fino ai nostri giorni, di una vera e propria-«mitologia neocatara». Dopo una breve introduzione storiografica sui catari, esso-prenderà in esame il revival neocataro contemporano, che può essere diviso in due diverse-fasi. Durante la prima (fine del XIX secolo-prima metà del XX), l’eresia albigese-fu vista principalmente come una credenza esoterica e sincretica o come il mito fondativo-dell’identità occitana; nella seconda fu invece considerata come una sorta di antico-e autentico messaggio gnostico-cristiano contrapposto al cattolicesimo romano.-Entrambe le fasi sono confluite, durante la seconda metà del XX secolo, in un fenomeno-commerciale di successo, che ha portato alla produzione di romanzi, film e brani-musicali dedicati all’epopea catara.-
Affrontando le problematiche legate al diritto delle armi tra Medioevo e prima età-moderna, la storiografia esistente si è concentrata maggiormente su temi di ius ad bellum-che su quelli di ius in bello; e in particolare non ha finora approfondito il modo in-cui venivano trattati i prigionieri di guerra.-La questione si può studiare soltanto con uno scavo diretto tra le fonti del periodo,-sia letterarie sia archivistiche, alla ricerca di esempi concreti e indicazioni relative all’effettiva-applicazione, nelle guerre intercristiane, delle norme della bona guerra derivate-dalla tradizione medievale. Partendo dalla trattatistica coeva, e traendo esempi-dalle Guerre d’Italia del Cinquecento, sulle quali esiste un’ampia documentazione,-l’autore tenta di ricostruire quali fossero in merito le usanze belliche del tempo; arrivando-a concludere che leggi più umane si sono diffuse nelle situazioni in cui il rischio-di prigionia diventava così alto per le parti in conflitto da rendere opportuna una trasformazione-dei costumi.-
L’ultima pubblicazione di David Harvey, Città Ribelli - I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, viene contestualizzata attraverso una disanima dell’ampia opera del geografo marxista. Riprendendo l’originale griglia harveyana di lettura delle trasformazioni dell’urbano l’autore ne discute in prospettiva critica le transizioni dell’apparato categoriale, lette alla luce della crisi attuale e dal punto di vista dei movimenti urbani.
La gentrificazione - soprattutto per opera delle piccole imprese creative - ha avuto un ruolo fondamentale nella rigenerazione dei quartieri semicentrali di Milano negli ultimi decenni del secolo scorso. Nel 2000, nei quartieri più esterni, sembra essere fondamentale il ruolo delle grandi cordate immobiliari e delle archistar. Se monumentalizzazione e gentrificazione operano in sinergia, la speranza di una "visitabilità" che porti nuovi consumatori, può convivere con il recupero dell’antico e del pittoresco, la difesa di culture e professioni autoctone, la valorizzazione di isole culturali caratterizzanti. La polarizzazione della città dovuta ai due vistosi movimenti di popolazione che la riguardano, il network globale della borghesia transnazionale e i flussi di migranti in cerca di lavoro e di stanziamento, potrebbe venire anche in questo caso mitigata dal tessuto dei ceti medi, i piccoli imprenditori, gli artigiani, i commercianti: da una parte i piccoli esercizi di prossimità, rassegnati ad una condizione di inerzia, quando non in vera sofferenza; dall’altra parte, i nuovi imprenditori, o vecchi imprenditori che hanno saputo ridefinire creativamente la loro attività, in sintonia con la vocazione culturale della città postmoderna. La tesi è che proprio questa classe creativa abbia in mano i destini dell’economia simbolica milanese e sia in grado di fungere da cerniera tra i grandi protagonisti e i molti esclusi della città. Con questa chiave di lettura, i sei quartieri studiati sono stati classificati in una tipologia che indica l’apporto più o meno consolidato delle piccole imprese culturali alla rinascita del quartiere. Parole chiave: Milano, quartieri, gentrificazione, capitale culturale, creolizzazione, periferie.
L’articolo approfondisce il ruolo della dimensione spaziale nelle aree urbane svantaggiate francesi. Parte della letteratura sul tema lega la produzione e riproduzione di aree di esclusione all’affermazione dei processi di globalizzazione. Sottolineando la sovrapposizione tra esclusione sociale e spaziale, molte teorie riconoscono alla dimensione spaziale solamente un ruolo passivo; al massimo, la concentrazione di popolazioni vulnerabili ha l’effetto di esacerbare la loro esclusione. Il semplicistico ruolo riconosciuto da questi approcci alla variabile spaziale porta inevitabilmente a interpretare questi territori come meri luoghi di confinamento. Prendendo in considerazione sia il dibattito sugli “effetti di quartiere” sia le ricerche condotte nelle città francesi, nell’articolo si sostiene che gli effetti della concentrazione della vulnerabilità non devono essere interpretati in maniera esclusivamente negativa e che anche in questi territori sono disponibili risorse per l’inclusione. Infine, sono sottolineati alcuni effetti paradossali delle politiche di demolizione e ricostruzione che fanno parte del programma di riqualificazione urbana della Politique de la Ville. Nonostante queste politiche si rivelino efficaci nel rimodellare lo spazio, esse rischiano di distruggere le risorse che lo spazio residenziale fornisce alle popolazioni più vulnerabili.
Il contributo discute lo stato attuale della letteratura statunitense sui meccanismi culturali nella ricerca sui neighborhood effects. In primo luogo si definisce cosa si intende per effetto quartiere e per meccanismi culturali. Si passa poi in rassegna e si fornisce un’analisi critica di due prospettive teoriche sul contesto culturale dei quartieri svantaggiati che sono esplicitamente integrate nella recente letteratura sui neighborhood effects negli Stati Uniti: la prospettiva della "subcultura deviante" e quella della "eterogeneità culturale". Gli autori hanno poi attinto dalla letteratura americana sugli studi urbani, dalla sociologia culturale su cultura e diseguaglianza per proporre alcune concettualizzazioni che possono rivelarsi utili nell’accrescere la comprensione del ruolo della cultura nei neighborhood effects. Infine si discutono le questioni concettuali e metodologiche che dovranno essere affrontate per un avanzamento delle riflessioni sul tema e si conclude offrendo proposte concrete, sia a breve che a lungo termine, per un’agenda di ricerca.
L’articolo ha l’obiettivo di osservare come una popolazione partcolarmente vulnerabile, i giovani provenienti da famiglie operaie a basso reddito, possano essere a richio di esclusione sociale in due diversi contesti nazionali e locali. Infatti, esistono condizioni specifiche (a livello locale, istituzionale e politico) che possono aumentare o diminuire il rischio di esclusione sociale e povertà. L’autore si concentra in particolare sulle traiettorie, le esperienze e le pratiche sociali dei giovani residenti in quartieri "difficili" e a basso reddito. Uno degli obiettivi è quello di capire se, ma soprattutto come e perché, il fatto di vivere in un luogo ad alta concentrazione di povertà possa influenzare le opportunità e le traiettorie dei giovani residenti.
La sociologia contemporanea si trova a dover fare i conti con il fardello rappresentato dalla dicotomia cultura - struttura, la cui responsabilità è generalmente attribuibile alla sociologia culturale. L’autore affronta quattro assunti tra loro correlati: (1) Non si è mai giunti ad una definizione univoca di cultura, facendo della sociologia culturale un campo incapace di definire il proprio concetto centrale; (2) mantenere questa dicotomia significa ignorare il fatto che per spiegare il comportamento sociale occorre tenere in considerazione sia struttura che cultura; la cultura non può essere la causa di se stessa; (3) la sociologia culturale è soft ed emotiva, evita il conflitto così come il dibattito politico; (4) tralascia le questioni politiche e la ricerca politicamente orientata molto più di quanto non faccia il resto della sociologia. Ad ogni modo, la sociologia strutturale ha anch’essa alcuni limiti, ed è la stessa dicotomia cultura-struttura che andrebbe abbandonata.
L’articolo sottolinea l’importanza di integrare struttura e cultura nelle riflessioni intorno alla cultura della povertà. Ciò è possibile, secondo l’autore, se si tiene presente che le recenti acquisizioni in tema di cultura della povertà costituiscono un passo in avanti nel dibattito su povertà e neighborhood effects. In questa direzione il passaggio dal modello delle subculture a quello dell’eterogeneità culturale costituisce un valore aggiunto negli studi sugli effetti di quartiere se valorizza l’imprescindibile importanza del contesto evitando i pericoli di una decontestualizzazione culturalista. Nello stesso tempo il modello dell’eterogeneità culturale, volto a cogliere i meccanismi e le condizioni in cui agisce il neighborhood effect, consente di evitare i rischi di una tipizzazione strutturalista (universalistica), da un lato, e di una rappresentazione folclorica dall’altro, dei quartieri poveri.
La psicoanalisi, fin dalla sua fondazione, ha dato grande importanza alla letteratura e ha influenzato la critica letteraria. Dall’approccio di Freud a quello di Jung, l’arte e il processo creativo sono stati analizzati e discussi durante un intero secolo. I casi di Svevo e Saba, Schnitzler, Breton e Joyce, la diffidenza di entrambi nei confronti delle avanguardie artistiche, la narrazione come strumento di conoscenza.
Spesso accade che un romanzo sia in grado di affrontare con grande efficacia alcune tematiche attinenti alla pratica psicoanalitica. Questo è il caso di Elizabeth Costello32, breve opera narrativa tra il genere romanzesco e quello saggistico, scritta nel 2003 dal premio Nobel per la letteratura J. M. Coetzee. Attraverso i pensieri dell’omonima protagonista, questo libro riflette sui concetti di immaginazione, empatia e identificazione proiettiva. Grazie ad un’analisi dettagliata di alcuni passaggi del romanzo, vedremo come Elizabeth Costello, un’anziana scrittrice chiamata a partecipare a numerosi convegni e simposi, sostenga l’esistenza di un’immaginazione empatica che oltrepassi i limiti della ragione umana, per giungere ad una conoscenza completa e assoluta dell’altro che non implichi alcuna prevaricazione; al contrario, una conoscenza oggettiva e neutrale, rispettosa della differenza dell’altro, sia essa relativa all’etnia, al genere o addirittura alla specie. La Costello afferma con forza l’esistenza di una facoltà umana al confine tra immaginazione ed empatia che ci permette di capire chiaramente che cosa significhi essere un altro essere animato: vivere come lui, sentirsi lui, fare esperienza del mondo come lui. L’esempio più lampante, che analizzeremo con attenzione, è tratto dallo studio del filosofo della mente Thomas Nagel, il quale si è chiesto Cosa si prova ad essere un pipistrello?33 ed è giunto alla conclusione che la nostra mente è troppo diversa da quella dell’animale in questione per poterlo capire appieno. Elizabeth Costello è dell’opinione contraria; tuttavia, l’autore J.M. Coetzee non sembra appoggiare le idee del suo personaggio, anzi, le mina alla base attraverso una serie di sottili strategie narrative che rendono le affermazioni della scrittrice, apparentemente così salde, incerte e inaffidabili. Inoltre, dimostreremo che la Costello non è in grado di mettere in pratica nella vita reale il suo concetto di empatia, manifestando invece una profonda incapacità di relazionarsi con i suoi simili e un costante bisogno di avere il controllo delle persone attorno a sé. Infine, analizzeremo il capitolo conclusivo del libro, nel quale la protagonista abbandona improvvisamente tutte le sue convinzioni e ammette di non credere in niente; e vedremo come, all’interno del panorama narrativo di J.M. Coetzee, la consapevolezza di non poter raggiungere un’assoluta comprensione del diverso da sé sia il vero fondamento di una relazione interpersonale svincolata da ogni tipo di prevaricazione.