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This essay aims to demonstrate a clear and significant difference, not merely expository revisions or additions, in the logical progression of Being between Hegel’s two main versions of the Doctrine of Being (1812-1817 and 1827-1830, 1832). This controversial issue is analyzed by retracing and examining changes that international scholarship still widely neglects. Focusing on Hegel’s introduction of the doubled transition of Quality and Quantity in the genesis of Measure, the essay argues that the main point of the revisions is that Hegel views the whole determinateness of Being as self-sublating its own externality, because in one determination of Being passing into another one, the first does not vanish;; instead, both remain within their relational unity. Hegel’s new version of the genesis of Measure indicates an essentially qualitative appreciation of the quantitative methods of the empirical sciences. This accords with Hegel’s growing acknowledgment in Berlin of the independent cognitive status of the natural sciences in regard to philosophy, and with his reassessment of the relation between intuition, representation and conceptual cognition of the objects of consciousness, to do justice to their real differences and their being for themselves within their own existence.
L’autore racconta di un sogno in cui compare un paziente, con il quale aveva svolto, al momento, un solo primo colloquio di consulta-zione. Il sogno viene interpretato inizialmente come sogno di transfert, che mette in scena i dubbi del terapeuta sulla possibilità di avviare un buon processo terapeutico con un paziente ancora sconosciuto; tera-peuta che si sente inoltre sguarnito del sostegno dell’iter formativo da poco terminato. L’autore propone poi una ulteriore interpretazione, de-lineata alla luce delle successive sedute con il paziente, che vede il so-gno come frutto di una immediata comunicazione tra Inconsci. Attra-verso il sogno, il paziente "comunica" al terapeuta aspetti di sé e del suo funzionamento ancora non verbalizzabili; il sogno acquisisce così una sorta di "funzione anticipatoria" . Lo scritto vuole mettere in luce come il sogno, da un lato, abbia messo in scena le modalità con cui il terapeuta si è predisposto all’incontro clinico, e, dall’altro, abbia avuto poi la funzione di indicare al terapeuta stesso la strada da seguire per avviare e procedere nel lavoro terapeutico con il paziente sognato.
Nel lavoro l’autrice tenta di dare diverse chiavi di lettura del sogno dell’analista. Partendo dalla considerazione che il lavoro sui sogni è sfaccettato, si tiene conto dei diversi livelli di analisi del sogno e della necessità per l’analista di attingere sia all’interpretazione classica che ad altre funzioni del sogno, come quella comunicativa, riparativa, ela-borativa dell’esperienza analitica che impegna entrambi i membri della coppia. Privilegiando un vertice intersoggettivo, si lascia parlare il so-gno nelle diverse vesti in cui si può presentare: dal sogno dell’analista sul paziente, ai sogni ad occhi aperti, fino ai sogni in seduta e fuori se-duta. Si tenta di interrogare il lettore e di ampliare il valore enigmatico dei sogni, sottolineandone la ricchezza e l’inesauribilità sul piano tra-sformativo e simbolico.
Rispetto a un tempo, i sogni non sono più considerati solo come te-sti da decifrare ma come mezzi per entrare in contatto con gli aspetti più autentici della vita emotiva dei pazienti. L’autore mette in relazione alcuni aspetti non verbali delle sedute con la possibilità di arrivare a sognare e co-costruire significati verbalizzabili.
In questo articolo, alla luce della teoria di Jung sul sogno, vengono descritti i sogni di controtransfert che mostrano la veicolazione incon-scia di immagini tra paziente e analista, la cui analisi può fornire l’accesso a nuove letture della relazione terapeutica. L’autrice, attraverso la presentazione di brevi vignette cliniche, mo-stra come il lavoro sui sogni di controtransfert rappresenti una modalità attraverso la quale il terapeuta può prendere contatto in primis con proprie parti interne, avviando, in tal modo, un dialogo interiore che consenta di attivare una nuova comunicazione con il paziente alla luce delle trasformazioni prodotte dal lavoro di integrazione di aspetti inconsci.
L’autore, recuperando il testo di un personale sogno prodotto duran-te il primo anno di formazione psicoanalitica, integra le elaborazioni dell’epoca alla luce dei contributi teorici che nel tempo sono emersi in-torno al fenomeno onirico. Con la riconsiderazione in après coup dell’analisi di allora, e l’esperienza maturata negli anni all’interno dell’Istituzione Psicoanalitica, ipotizza di poter riconoscere delle costanti nei vari passaggi forma-tivi che l’allievo attraversa lungo il training. La descrizione segue così un doppio registro: una lettura più articolata del sogno di un tempo sembra consentire la riflessione su alcuni aspetti riguardanti l’interazione dei candidati psicoterapeuti con l’Istituzione di appartenenza.
Dopo aver descritto l’origine del blues e i motivi della sua nascita, sono esposte le analogie fra i modi di ascolto in psicoanalisi e nella musica. Sono presi in considerazione i primi lavori di Reik e Fliess per poi passare a quelli di Schafer, terminando con alcuni concetti psicoanalitici comuni alla comunicazione non verbale. Seguono alcune considerazioni sull’argomento prima di porre l’accento sull’analogia fra la funzione fondamentale della musica e della psicoanalisi, che si basa sull’interpretazione e l’improvvisazione. Secondo Kohut la musica, per il suo modo di comunicazione più primitivo, è collegata al processo primario mentre le parole, che sono più superficiali, sono connesse al processo secondario. Quando ascoltiamo un brano di blues, come in psicoanalisi, si crea-no, infatti, i presupposti per favorire lo sviluppo di un pensiero onirico della veglia che, attraverso una rêverie acustica, riporta alla luce il trauma della sofferenza degli schiavi, che si riflette nelle esperienze personali del terapeuta e nelle sue passioni e fa assumere al sogno, come sosteneva Ferenczi, una valenza "traumatofilica", rendendo me-no traumatiche le esperienze del passato. L’ascolto di un brano di blues ci rimanda alla "Teoria dell’Illusione Estetica" di Kris, che protegge gli individui dalle loro paure reali favo-rendo, come nel blues, la nascita di sentimenti che in altre condizioni esiteremmo a permetterci. Prima di terminare con due vignette cliniche, esplicative di come imparare a suonare un buon blues o andare fuori tempo, è descritto il ruolo del setting in psicoanalisi che è simile alle sue dodici battute, che si ripetono in maniera precisa e monotona permettendo che al suo in-terno si sviluppi una narrativa (libere associazioni), improvvisata con le cinque scale pentatoniche.
Alla fine del XX secolo diventò possibile osservare la struttura di un cervello umano vivente e, pochi anni dopo, fu possibile osservarne an-che le attivazioni. Ne derivò la convinzione che fosse possibile osser-vare "il cervello al lavoro", "vedere", cioè, quali parti del cervello era-no attive mentre un soggetto aveva esperienza dei contenuti mentali. Ci si convinse, perciò, che si potesse accedere a quelle aree del cervello che producono la mente, "vederle mentre producono la mente". Pur-troppo, anche se si è convinti, come lo sono io, che la mente sia il prodotto del cervello, va riconosciuto che l’idea di essere attualmente in grado, attraverso le neuroimmagini, di "vedere il cervello al lavoro" è fuorviante. Per prima cosa, le neuroimmagini si basano sull’assunzione di "modularità". Sull’assunzione, cioè, che le funzioni mentali siano ascrivibli a specifiche aree cerebrali. Purtroppo, la modularità non è il solo modo plausibile di concepire il rapporto fra funzioni mentali e strutture cerebrali. L’assunzione di modularità, poi, diventa utile soltanto se il ricercatore ha a disposizione strumenti per stabilire con precisione quali aree cerebrali sono attive mentre il soggetto sta svolgendo un compito. Le tecniche attuali non sono ancora in grado di farlo e molti sono i problemi irrisolti quando si interpretano le neuroimmagini. Un’altra difficoltà è che le caratteristiche del compito svolto dal sogget-to devono essere note nei dettagli. Invece, la natura delle operazioni che compongono una funzione mentale, e il loro decorso temporale, sono spesso ignote. Infine, anche assumendo che le altre condizioni siano ottemperate, si riuscirebbe semplicemente ad attribuire certe fun-zioni mentali a certe aree cerebrali. In altre parole, saremmo in grado di "localizzare" nel cervello le funzioni mentali. Purtroppo "localizzare" non vuole dire "spiegare". Anche se fosse possibile attribuire certe funzioni mentali a certe aree cerebrali, il valore esplicativo di questa operazione sarebbe dubbio. Per spiegare una funzione mentale è di scarso aiuto sapere il luogo nel cervello dove viene realizzata. Una vera spiegazione richiede essere precisi e dettagliati riguardo ai meccani-smi dai quali dipende.
L’autrice ripercorre le tappe di sviluppo del pensiero psicoanalitico di Fachinelli, analizzando i temi trattati nelle sue opere principali (La freccia ferma, Claustrofilia, La mente estatica). Mette in luce il suo procedere dalla posizione classica, che attribuisce al lavoro psicoanali-tico il compito di rendere Conscio il desiderio inconscio superando le barriere delle difese, verso una visione dinamica del dialogo analitico, rivolto ad ampliare le dimensioni e le esperienze psichiche del sogget-to. Infine l’autrice evidenzia il carattere anticipatorio del pensiero di Fachinelli rispetto ad autori successivi (Ogden, Ferro, Roussillon, Bol-las) che sono andati oltre nel descrivere il funzionamento della mente dell’analista in seduta, rivolta ad attivare le dinamiche contenitore-contenuto.
Alla latitudine del deserto psichico la sabbia si impossessa dei sensi del terapeuta e ne colonizza la mente, tanto che il lockdown emotivo, nonché la desertificazione della speranza, bloccano la capacità di so-gnare dell’analista. Nel caso presentato, l’inizio del lavoro terapeutico avviene quando l’autrice trova delle tracce di vita autentiche sepolte in una tana nel deserto psichico del paziente. La prima fase del percorso è possibile ascoltando le Muse, creando "impianti" ed "irrigazioni musi-cali" che permettano ai germogli di crescere. L’ascolto delle Muse e la condivisione di una comune passione permettono all’autrice di recupe-rare vitalità e creatività che consentono al paziente di strappare terreno al processo di desertificazione e di rendere coltivabile parte dei territo-ri.
L’autrice, a partire da alcune associazioni riguardo a cinema, storia e letteratura, prende in esame le vicissitudini della coppia paziente-terapeuta all’interno del campo analitico. In particolare, osserva a quanti e quali livelli può avvenire lo scambio di contenuti inconsci lungo una immaginaria linea ascendente che va dalla percezione soma-tosensoriale o allucinatoria, espressione di elementi indigeribili e irrappresentabili, fino al sogno, quindi al rappresentabile e simbolizzabile. A conforto di ciò vengono riportati alcuni esempi clinici nei quali l’analista si trova nella condizione di sentire-per e di non sapere. Infatti l’irrompere nel campo analitico di elementi beta, percepiti in varie forme e sconosciuti al paziente quanto all’analista, sono percepiti come estranei, incomprensibili poiché rappresentano stati mentali primitivi che l’analista deve contenere in uno spazio intermedio dove non c’è possibilità di agito né di pensiero, ma solo di contenimento e attesa. Questo consente il ripristino, a tempo debito, della funzione alfa dell’analista e la riattivazione di quella del paziente. L’autrice, inoltre, esamina gli elementi dimensionali del campo analitico, mostrando come, oltre ai reciproci movimenti intrapsichici, la costruzione del campo possa estendersi anche ad altri soggetti a vario titolo coinvolti che possono entrare a far parte del processo analitico con i propri Inconsci.
L’autrice racconta il processo di rielaborazione interiore messo in moto da un’esperienza di impasse nella scrittura clinica sul tema delle maternità eterologhe. A partire da un sogno di controtransfert, l’elaborazione necessaria a differenziare le componenti del legame co-stituitosi tra analista e paziente nel corso della cura, acquista la forma di un complesso travaglio che l’autrice, prendendo spunto dal racconto di Schnitzler Doppio sogno, chiama il "doppio sogno" dell’analista. L’argomentazione segue lo sviluppo di una catena associativa che lega insieme esperienza personale, esperienza clinica e riferimenti teorici e sfocia in una arricchente esperienza autoanalitica.
La reverie come strumento clinico nella stanza d’analisi si è dimostrata potenzialmente in grado di svelare contenuti altrimenti destinati a rimanere inespressi. L’autore sottolinea la complessità di questo concetto, passando in rassegna i contributi di alcuni autori post-bioniani ed evidenziando importanti differenze nel modo in cui la reverie è defini-ta e utilizzata clinicamente. L’autore esplicita quindi il proprio modo di intendere questo concetto chiave della psicoanalisi contemporanea, an-che attraverso un’esemplificazione clinica.
In questo editoriale il Direttore annuncia il progetto di dedicare il prossimo numero, in uscita in dicembre, all’emergenza del contagio che stiamo vivendo. Questo progetto, che prima si era pensato di anticipare in un forum in questo numero, è stato poi rinviato: in questo modo, prima di formulare una riflessione teorico-tecnico-clinica sulla psicoterapia dell’emergenza, si vuole sostare nella "capacità negativa", mentre si sta vivendo una situazione traumatica insieme ai pazienti e alla comunità. Il tema di questo numero "Il sogno dell’analista", d’altra parte, appare, in questo momento, portatore di "un principio di speranza": quello di riuscire a continuare ad essere "visionari". Questo accade nel processo terapeutico, se la mente psicoanalitica funziona, quando s’intravede l’Inconscio attraverso la rêverie, il sogno della veglia e i sogni del sonno, quando si riesce a dare un possibile senso che viene dall’Inconscio del terapeuta e del paziente. La domanda che viene spontanea è dunque: a chi appartiene il sogno? La libera associazione dell’autrice riporta a L’Aleph di Borges; l’aleph è una sfera roteante che compare all’improvviso all’autore, all’interno della quale prendono forma volti, memorie, immagini potenti raffiguranti il destino e la sua storia soggettiva, ma anche quella dell’umanità. Le sensazioni-percezioni e i pensieri sono così vividi che egli deve rimuovere questa "visione", pur sapendo di averla in mente da qualche parte. Così l’intuizione, la visione, la verità ultima possono "apparire" nella nostra mente, ma poi devono sostare sullo sfondo e costituire il punto di partenza e non di arrivo: bisogna riscoprire la verità soggettiva giorno per giorno. Tutti i lavori di questo fascicolo sono presentati brevemente: essi parlano del sognare con il paziente, sul paziente o su se stessi, attingendo alla propria mente, alle proprie passioni, alle libere associazioni con l’arte, la letteratura, la musica. Questo il denominatore comune che testimonia che il lavoro del sogno è un atto creativo che tocca le passioni e i desideri di ogni analista e che ha le sue radici in quello che la sua mente elabora in relazione ai suoi interessi soggettivi e al mistero dell’incontro con l’altro.