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Elena Di Bella

L'emozione si fa scienza: menti a confronto

GRUPPI

Fascicolo: 1 / 2006

L’articolo riprende l’auspicio freudiano di ritrovare un punto di contatto tra psicoanalisi e biologia, alla luce delle conoscenze attuali, neuroscientifiche e psicoanalitiche, con particolare riguardo alla psicoanalisi dei gruppi. Vengono passati in rassegna i principali studi in campo neurobiologico, a partire dagli storici articoli di Kandel (1988 e 1989), appassionato sostenitore della necessità di una nuova cornice biologica per la psicoanalisi. Sullo sfondo dei lavori classici di Edelman, Damasio, LeDoux, l’autrice si sofferma in modo dettagliato su due libri: Mattioli, L’emozione si fa scienza e Solms e Turnbull, Il cervello e il mondo interno, per mettere in luce diverse epistemologie e stili di lavoro interdisciplinare, nei campi che sono comune oggetto di studio, dalla memoria al sogno, dall’inconscio all’efficacia della talking cure. Nell’ultima parte si sottolineano alcuni segnali di convergenza che potrebbero preludere a una nuova alleanza tra neuroscienze e psicoanalisi: vengono indicate aree di indagine, trasversali alle diverse discipline, come il concetto di empatia e la sua base neurale, nei cosiddetti neuroni mirror, la centralità degli aspetti emotivi e corporei, che comporta una revisione dell’assenza dello sguardo, teorizzata della psicoanalisi classica, sul lettino, e il concetto di plasticità.

Allo scopo di sfatare il mito metropolitano che gli psichiatri italiani non facciano gruppi terapeutici, l’autore illustra con brevissimi tratti come se fosse una storia a fumetti una serie limitata di significative esperienze di gruppo realizzate da un certo numero dei numerosi psichiatri con cui ha personalmente collaborato. Questo particolare racconto documenta anche, per punti sintetici, molti aspetti nodali dello sviluppo clinico-metodologico della terapia di gruppo nel contesto locale della psichiatria pubblica veneta degli ultimi trent’anni.

Dario Capelli, Maria Michelazzo, Chiara Vaggi, Antonella Tissot

Lo psicologo in un servizio ADI e Anziani: una competenza invisibile?

GRUPPI

Fascicolo: 1 / 2006

In questo articolo descriviamo gli sviluppi che il ruolo dello psicologo ed il suo setting hanno avuto in seguito al cambiamento di paradigma scientifico ed ai cambiamenti strutturali dei servizi sociosanitari. L’intervento dello psicologo si apre a comprendere i bisogni degli utenti e dei loro caregiver, i vissuti degli operatori, le dinamiche interne al gruppo di lavoro ed è finalizzato ad una presa di coscienza e a una integrazione delle varie componenti in gioco. A nostro parere questa elaborazione lunga e complessa appare caratterizzata da una scarsa visibilità, si muove su un piano ancora implicito, rende il lavoro dello psicologo quasi scontato e poco riconosciuto sul piano istituzionale. Pensiamo che questa difficoltà sia solo in parte dovuta alle complicate emozioni che si attivano durante i cambiamenti e alla difficoltà del lavoro psicologico che spetta a chi sta accanto alla malattia grave quando propone il recupero ed il riconoscimento di quelle parti della propria mente che spesso non sono considerate perché troppo dolorose. C’è anche una forte carenza culturale intorno alla nostra figura professionale a cui si potrebbe ovviare con un lavoro accurato di informazione alla popolazione. L’articolo descrive inoltre un intervento di gruppo proposto ai familiari di pazienti affetti da demenza che si è dimostrato efficace.

La medicina pensa che la malattia di Alzheimer privi i malati di memoria, coscienza ed identità; i test clinici rilevano ciò che gli anziani perdono, ma non ciò che resta. Noi pensiamo che la psicoterapia possa offrire a tutti un modo per vivere la propria dignità, come uomini e donne, nelle proprie personali possibilità. Così è importante che ogni psicoterapeuta colga ciò che egli e il suo paziente possono vivere insieme. Un paziente malato di Alzheimer, o demente, è una persona che ha perso alcune funzioni mentali superiori ma mantiene la sua sensibilità e la sua vita emotiva, soltanto che non ha parole per dirlo. Un paziente anziano od AD è una persona che deve completare la propria vita come anziano, e deve essere aiutato a farlo. La psicoterapia deve poterlo fare. Gli anziani amano raccontarsi, circa il loro passato e la loro vita: così la psicoterapia di gruppo può essere molto utile; inoltre, la terapia gruppoanalitica, secondo le teorie di Bion e Matte Blanco, che si serve delle emozioni, riesce a far emergere isole di coscienza ai pazienti AD o dementi. La nostra esperienza dimostra che nel gruppo gli anziani esprimono sentimenti ed eventi significativi egosintonici e aderenti alla realtà hic et nunc; nelle sedute successive essi sono in grado di riconoscere il gruppo e i loro membri, ricordano il compito del gruppo; tale abilità perdura anche oltre la pausa estiva. Essi sono molto felici di sentirsi ancora persone. Non siamo sempre Alzheimer dice la protagonista del film Indimenticabili interpretato da Mia Farrow. Anche se un anziano è demente, egli rimane una persona che è vissuta più a lungo e più di noi; egli/ella può dirci molto sulla vita, la nostra vita, anche se noi, e a maggior ragione, siamo terapeuti.

Si tratta di un gruppo di psicoterapia con anziani, residenti in una struttura per non autosufficienti. I partecipanti al gruppo sono stati selezionati in base ad alcuni criteri: relativa integrità delle funzioni cognitive; presenza di sintomi o vissuti depressivi; motivazione alla partecipazione. Essi hanno un’età media di circa ottant’anni, tutti hanno problemi di tipo motorio che limitano pesantemente la loro autonomia. Uno dei temi fondamentali di tale gruppo riguarda l’elaborazione del lutto, della separazione estrema, ossia della propria morte. Un altro aspetto caratterizzante il gruppo, è la dinamica del transfert-controtransfert, il rapporto del conduttore, generalmente molto più giovane, con il gruppo e con i pazienti, cioè l’aspetto intergenerazionale. Gli aspetti più creativi e più terapeutici di questo gruppo hanno riguardato la possibilità di ritrovare per questi pazienti, la capacità di giocare attraverso la narrazione e la possibilità di accedere a spazi vitali dentro di sé, nei propri ricordi e nella propria storia. Poter poi condividere, raccontare, narrare ed esplorare nuovi spazi simbolici è potenzialmente arricchente, terapeutico e dà ampio respiro alla relazione. Ampio spazio è dedicato alla cornice istituzionale e alla difficoltà a mentalizzare e a verbalizzare i vissuti legati alla morte nelle strutture per anziani non autosufficienti.

A partire dall’esperienza effettuata in una residenza per anziani in merito alla creazione di un servizio di consulenza psicologica rivolto agli utenti, vengono proposte alcune riflessioni sul senso del limite con cui si confrontano gli individui, i gruppi (le équipe curanti) e le istituzioni che si occupano della cura dell’anziano. Malattia, lutto, morte sono aspetti presenti nella relazione con la persona anziana che conducono di fronte ai limiti dell’esistenza umana e che hanno stimolato la scrivente a porsi alcuni interrogativi. Cosa accade quando ci si confronta con la morte come limite della propria esistenza, e con i propri limiti nell’accettare ed elaborare il senso della propria finitezza? Quali le implicazioni a livello di transfert e di controtransfert, sul piano individuale, gruppale, istituzionale? Quale futuro si prospetta per le prossime generazioni di anziani e per le strutture deputate al loro accoglimento? Come può l’anziano di oggi essere utile all’anziano di domani? Il tempo morto potrebbe prefigurarsi come un’espressione tangibile di questo limite umano e, per questo motivo, potrebbe rivelarsi una risorsa nel lavoro con l’anziano istituzionalizzato.

L’autore discute, sulla base della sua specifica esperienza, l’idea che la terapia di gruppo con gli anziani è molto più scientifica quando riconosce effettivamente che essi sono fatti delle loro reti sociali e delle comunità locali, della loro ricerca di un senso della vita anche di fronte alla morte, e dei modi complessi in cui affrontano il tempo.

L’articolo prende in esame il problema della psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico nel paziente anziano, dal punto di vista della teoria e della teoria della tecnica, con particolare riguardo all’interrogativo se e come tale intervento possa porsi in continuità con quelli praticati nelle altre fasce di età, e considera anche la letteratura in proposito a partire da Freud per arrivare ai tempi attuali. Con l’ausilio di alcune vignette cliniche, l’autore discute del transfert e del controtransfert, della personalità del paziente e di quella del terapeuta, dei fenomeni gruppali e del loro influsso sulla terapia. La conclusione cui l’autore giunge è che la terapia in età senile può collocarsi a buon diritto nell’ambito di quanto è propriamente psicoanalitico, sia a livello individuale che gruppale, dovendosi comunque porre attenzione da un lato a rispettare le specifiche caratteristiche della psicologia della senescenza, dall’altro a non introdurre arbitrarie modifiche, secondo quanto insegnato ad esempio da Eissler con il suo concetto di parametro.

L’autore espone la rielaborazione che Fornari attua dell’analisi freudiana del sogno. Di essa vengono descritti alcuni presupposti ideologici ingiustificati che creano, secondo Fornari, incongruenze nella teoria. La nuova sistemazione della teoria permette all’autore di realizzare un modello interpretativo utilizzabile sia nell’area individuale che in quella gruppale e istituzionale.