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La maggioranza progressista e le elezioni Usa 2000 (di Stanley Greenberg DOSSIER Presentiamo su questo numero della rivista un inedito particolarmente interessante: si tratta infatti del resoconto steso da Stanley Greenberg pochi giorni dopo la proclamazione del vincitore delle elezioni Presidenziali americane e indirizzato all’Institute for America’s Future, un istituto particolarmente vicino alle posizioni dei Democratici e di Al Gore, candidato Democratico alle Presidenziali dello scorso anno. Come è noto, Greenberg è stato uno dei più ascoltati consulenti per la campagna elettorale di Gore e ha lavorato a stretto contatto con il candidato Democratico negli ultimi 3 mesi della campagna. Il suo apporto è stato decisivo in particolare nell’elaborazione e nella formulazione delle strategie comunicative, sia per quanto riguarda l’immagine pubblica e la selezione dei temi che per quanto riguarda la vera e propria comunicazione politica. Le analisi su cui si basano alcune risultanze di questo rapporto sono state effettuate a partire da diverse fonti: una serie di sondaggi pre-elettorali condotti dai responsabili della campagna elettorale di Gore (con la consulenza di Hickman-Brown), 2 sondaggi post-elettorali condotti direttamente dall’istituto cui fa capo Stanley Greenberg (GQR, Greenberg Quinlan Research) ed ulteriori analisi svolte da vari soggetti nei passati appuntamenti elettorali. Ogni sondaggio aveva mediamente una base campionaria di 1000 elettori che dichiaravano di andare a votare (nei pre-elettorali) ovvero di elettori che avevano già votato (nei post-elettorali); la durata di ogni sondaggio era di circa 25 minuti. Il rapporto completo dal quale è tratta la parte che qui pubblichiamo è molto articolato, e analizza in maniera particolareggiata e dettagliata ciascun elemento inerente i quattro ambiti che, come sostiene Greenberg, hanno rappresentato i principali "punti critici" del candidato Democratico, impedendo la sua elezione nonostante la maggioranza degli americani fosse più vicina alla sua proposta politica che a quella di Bush. Ma oltre che per il suo contenuto specifico, lo studio è altresì illuminante sulle modalità secondo cui si struttura solitamente nel mondo anglosassone il rapporto tra consulente e politico. In Italia, (come è stato sottolineato nell’articolo precedente), il politico utilizza spesso un pollster o un istituto di ricerca da una parte per ottenere informazioni immediate sul suo appeal personale o sugli orientamenti di voto, dall’altra in qualità di "confidente", distaccato dalla battaglia politico-elettorale, talvolta per ottenere rassicurazioni personali. In entrambi i casi, generalmente il consulente non entra a pieno titolo nel processo decisionale tattico o strategico che una determinata forza politica vuole mettere in atto: fornisce dati o risultati che serviranno ad altri per decidere, ad esempio, la campagna di comunicazione o le strategie elettorali. Il metodo esemplificato nel rapporto di Greenberg appare viceversa maggiormente "invasivo": il consulente prende parte attiva alla formazione del processo decisionale e talvolta aderisce anche alla parte politica cui presta la propria consulenza. Come si può leggere in questo breve scritto, le note conclusive mostrano chiaramente i sintomi di un elevato livello di coinvolgimento nel futuro politico del Partito Democratico negli Usa. La consulenza sfuma quasi nell’adesione, utilizzando le capacità professionali, oltre il puro "lavoro", per arrivare alla partecipazione empatica alla causa politica. Un ultimo dato appare utile sottolineare, e riguarda il livello di fiducia con cui negli Stati Uniti ci si accosta ai sondaggi demoscopici: mentre in Italia siamo abituati a mettere spesso in dubbio alcuni risultati, o a mediarli a partire dall’istituto che effettua il lavoro, nella sua analisi Greenberg giunge perfino a confrontare tra loro, mettendoli sullo stesso piano, i risultati elettorali ufficiali con quelli desunti da un campione di 1000 intervistati. A suo giudizio, ad esempio, Gore detiene la maggioranza dell’elettorato americano sul piano delle issues (dati di sondaggio), con uno scarto da Bush di poco superiore a quanto si è evidenziato nel voto palese (dati elettorali). E’ questo un segnale forte anche per il nostro Paese: se si eliminasse un po’ di dilettantismo anche in Italia, nulla vieterebbe di ottenere informazioni scientifiche corrette e attendibili anche lavorando per una specifica parte politica. Senza ingannare l’opinione pubblica.
La diffusione del telefono e l’ingresso in politica di Berlusconi sono stati i due elementi che, a partire dagli anni novanta, hanno mutato in Italia il rapporto tra politici e sondaggi. Fino ad allora erano infatti limitate le occasioni da parte del mondo politico di utilizzare strumenti demoscopici. Da quando il telefono si è diffuso praticamente in tutte le famiglie italiane, il sondaggio politico è divenuto una realtà. Silvio Berlusconi per primo è stato colui che meglio ha compreso le potenzialità sia conoscitive che comunicative di questo nuovo strumento. In una situazione di grande fluidità elettorale, il bisogno di esplorare le opinioni dell’elettorato è diventato da allora uno dei motivi prioritari dell’utilizzo di questo strumento da parte del mondo politico. Nel saggio si avanza l’ipotesi che un miglior utilizzo dello strumento demoscopico possa essere utile, non soltanto in un’ottica di breve periodo (come accade oggi troppo spesso), ma per un più proficuo orizzonte strategico di medio-lungo periodo.
Berlusconi e il suo approccio alla politica sono frutto più che causa delle trasformazioni indotte dall’avvento della società della comunicazione mediata dalla tv. Le novità nella comunicazione politica non cominciano tutte con il 1994. Il problema è l’impatto della cultura e della prassi politiche con l’era dell’informazione e la comunicazione di massa. Nel 2000, con le elezioni regionali prima e con l’avvio della campagna per le politiche 2001 avviene un riallineamento delle tecniche, tutti adottano lo stesso approccio alla comunicazione. Ma la realtà dei king maker in Italia è molto più prosaica di quanto si possa pensare. Le condizioni oggettive dello sviluppo della competizione politica non permettono ancora la nascita di un mercato maturo e quindi una professionalità sufficiente. Di conseguenza anche la disciplina è debole. La politica ha bisogno di comunicazione professionalizzata ma, in primo luogo, ha bisogno di considerare realisticamente i possibili effetti della comunicazione che sono importanti ma non tali da sostituirsi alla politica stessa.
L’articolo - che riprende alcuni risultati emersi da un sondaggio svolto su di un campione rappresentativo di elettori veneti il giorno stesso delle elezioni regionali del 16 aprile 2000 - mette in evidenza come la campagna elettorale, giocata anzitutto sui media, abbia svolto principalmente un ruolo di tipo "rafforzativo" ed è stata seguita particolarmente da chi sapeva già dove indirizzare il proprio voto. Gli indecisi sulla scelta di voto, segmento di elettori che ha assunto progressivamente un ruolo più rilevante sia sotto il profilo quantitativo che strategico per gli esiti elettorali, sono, invece, apparsi meno sensibili alla comunicazione politica; si sono affidati in misura maggiore alle reti amicali e ai gruppi parentali al fine di avere indicazioni sul voto da esprimere. Emerge, inoltre, che la "personalizzazione" della campagna elettorale ha avuto un peso minore sulla scelta di voto rispetto all’influenza esercitata da logiche più tradizionali quali l’appartenenza partitica e le divisioni ideologiche. La ricerca mette in evidenza come la dialettica tra appartenenza politica e sociale e la logica dei media resti fondamentalmente ancora una questione aperta.
L’articolo analizza un fenomeno nuovo per il contesto politico italiano: il sempre più frequente ricorso, soprattutto in periodo elettorale, a professionisti (pubblicitari, sondaggisti, giornalisti, ecc.) esterni ai tradizionali apparati politici. Si determina così una nuova forma di professionalizzazione della politica che produce trasformazioni importanti sulle tradizionali strutture dei partiti di massa e che qui viene esaminata anche comparativamente con quanto sta avvenendo in altri paesi. Di questa nuova professionalizzazione vengono messe in evidenza le differenze con le accezioni più consolidate provenienti dalla sociologia politica.
Il dibattito sullo sviluppo della comunicazione politica nelle campagne elettorali ha suggerito che le trasformazioni da esso comportate abbiano avuto luogo in risposta ai mutamenti avvenuti nelle relazioni fra i partiti politici e i loro elettori. Questo articolo avanza un’ipotesi diversa: che sia necessario considerare con più attenzione l’impatto del nuovo mezzo televisivo quale causa della crescente specializzazione dei ruoli della comunicazione politica che ha avuto luogo negli anni ‘50. Sostiene inoltre che tale specializzazione, definita a volte professionalizzazione, richiede un’analisi più approfondita.