Il volume ricostruisce il significato complessivo dell'itinerario intellettuale arendtiano, seguendo la logica interna delle sue principali problematiche, e non attenendosi ai dettami della cronologia.

Un itinerario che trova la propria continuità in una radicale ridiscussione del tradizionale rapporto tra filosofia e politica, tra theoria e praxis. La riflessione della Arendt può essere compresa, anche nei suoi aspetti più specificamente politici, solo se si presta attenzione ai presupposti filosofici dai quali muove: la critica heideggeriana alla metafisica e, più in generale, la filosofia dell'esistenza.

La centralità di queste assunzioni filosofiche viene fatta emergere, soprattutto, nella parte del libro dedicata all'esame delle interpretazioni arendtiane delle filosofie di Platone e Aristotele, di Hobbes e di Rousseau, di Hegel e di Marx. Vengono così messi a fuoco i motivi che portano la pensatrice a far coincidere la storia della filosofia politica con un progressivo occultamento del significato originario del politico.

La radicalità dell'intervento decostruttivo della Arendt, del suo rifiuto di conciliare teoria e prassi, rende aporetica la sua ridefinizione dei concetti politici: da quello di azione a quello di spazio pubblico, da quello di potere a quello di autorità.

Le riflessioni arendtiane sul giudizio costituiscono l'oggetto della parte conclusiva del saggio. La questione affrontata è se la tematica del "giudizio" riesca davvero a superare tale aporeticità, riconciliando theoria e praxis, pensiero e azione.