Il contributo esamina il tema della rappresentazione del lavoro dalla prospettiva soggettiva di chi lo esercita o ne è alla ricerca. L’autore sostiene una tesi articolata su tre elementi: ci si sposta sempre più dalla rappresentazione del lavoro come precisa posizione nello spazio professionale alla rappresentazione "conveniente" dell’esperienza individuale acquisita attraverso l’insieme degli apprendimenti - formali e non - maturati nel corso della vita; l’individuo è impegnato, al medesimo tempo, in due distinti processi di rappresentazione, relativi rispettivamente all’identità verso il lavoro ed alle singole competenze professionali possedute, viste come risorse plurali e decontestualizzabili. Ciò può portare a conseguenze critiche nel rapporto fra la dimensione dell’"essere" (in quanto identità sociale) e quella dell’"avere" (competenze riutilizzabili); la capacità di rappresentarsi verso il lavoro va vista come una componente costitutiva della professionalità ed una risorsa primaria della negoziazione della posizione sul mercato. Gli aspetti meta- cognitivi acquistano in particolare una crescente centralità. Ciò porta a conseguenze rilevanti anche sul piano dei diritti reali, con il rischio di una maggiore individualizzazione della diseguaglianza, ove i singoli non dispongano di adeguate capacitazioni. In conclusione, l’autore afferma l’opportunità di ridirigere l’attenzione delle policies del lavoro dalla representation (intesa come protocollo utilizzato per segnalare la posizione verso il lavoro) al representing (il rappresentare, inteso come processo co-costruttivo nel rapporto fra individuo e società, con i correlati diritti, doveri e funzionamenti). Ciò richiede un ripensamento degli schemi di welfare attivo e del ruolo "capacitante" delle istituzioni.