Cosa significa povertà: è carenza di risorse economiche, solitudine, mancanza di lavoro e di prospettive o l'impossibilità di progettare la propria vita?

O tutte queste cose insieme, in una sorta di effetto a catena?

E in particolare, cosa significa povertà per una madre sola?

C'è in altre parole una specificità - avere dei figli, essere responsabili da sole e in prima persona di questi figli - che modifica in maniera sostanziale la percezione che il soggetto ha del proprio stato di disagio e di bisogno?

Quali storie, quali vicende conducono in fine a far parte di una scarna lista che accoglie i nominativi di donne a cui l'Istituzione dà un modestissimo sussidio in quanto madre sola in precaria situazione economica?

Chi sono queste donne, cos'è per loro la povertà, cosa possono raccontarci?

Quelle che vengono presentate sono ventitré piccole storie, ventitré brevi ritratti di altrettante donne sarde, sole con figli a carico, che vivono in una situazione di povertà. Povertà economica, oggettiva. Ma di ben altro spessore e ben altro significato è il vissuto di tale deprivazione. Nelle loro parole non c'è rimpianto, non c'è autocommiserazione: c'è orgoglio, dignità, consapevolezza e assunzione piena delle proprie responsabilità. Ma c'è anche, se pur non intenzionale e perciò tanto più vero, un inequivocabile e durissimo atto d'accusa verso l'ottusità istituzionale e l'ipocrisia sociale.

Essere madri sole vuol dire essere davvero sole.

Anna Rita Calabrò, sociologa. Svolge attività di ricerca su questioni quali la realtà femminile, i giovani, l'emarginazione. Conduce corsi di metodologia della ricerca qualitativa e collabora con la società Gender di Milano. Tra i suoi libri: Il vento non soffia più (Marsilio, Venezia, 1992), Una giornata qualsiasi (Ripostes, Salerno, 1996), L'ambivalenza come risorsa (Laterza, Roma-Bari, 1997).